Scolpire il colore
L’altra via di Maurizio Carpanelli

Nasce solo dall’anima l’arte di Maurizio Carpanelli. Non c’è medium culturale, non ci sono maestri che guidino la creazione e forse nemmeno luoghi ed oggetti. Si dice di taluni pittori che “abbiano visto” il loro quadro, ritagliandosi una porzione dì reale per trasferirla sulla tela. Carpanelli invece l’ha già in mente: dipinge scegliendo direttamente la diapositiva dal suo pensiero, dal suo ricordo. Picasso diceva che “dipingere é il mestiere di un cieco, egli non dipinge ciò che vede ma ciò che pensa, cosa dice a se stesso su ciò che ha visto”. Ed è così che nasce anche l’impasto dei colori, in un furore creativo che non lascia dubbi nemmeno ad opera ultimata. E resiste l’ispirazione che compone in brevi tempi quadri di misure quasi rinascimentali, accalcando colori su colori con una sensibilità cromatica che diventa plastica. Si stupisce quasi lo stesso pittore nello scoprire gli effetti che produce la mano quando naviga in perfetta sintonia con la mente: abbassa le luci e l’atmosfera cambia, si ovatta, scende la sera come se lo stesso quadro, dipinto in piena luce, scegliesse da sé di far calare l’imbrunire. Le pieghe di materia delle sue tele non subiscono: agganciano, si aggrappano volontariamente ai bagliori della luce, decidendo da sole dove debba riflettere il riverbero. A Carpanelli viene spesso chiesto, considerati i suoi studi di ingegneria, se anche per fare arte utilizzi mezzi tecnologici. All’opposto di chi ha voluto sondare la costituzione genetica della materia, incaricando l’arte, con supremo atto di fiducia, di scoprirne una parte ancor più recondita, Carpanelli ricava dalle sue conoscenze scientifiche una spinta più forte verso il suo universo più intimo ed irrazionale. La sua ricerca é piuttosto indirizzata a trovare strade sempre nuove per esprimere più profondamente il suo sentimento, é una ricerca puramente poetica. Non c’è nulla di cui stupirsi: la scienza appaga l’umano bisogno di certezze e nel contempo sprona, e questo più vale, a dissetare con diversi mezzi le altre necessità dell’ anima. Ha già una lunga storia la pittura di Carpanelli, un suo percorso composto di momenti di attenzione concentrata, di scavo insaziabile e di esperimenti condotti fino a svolte originali, ma anche passato da silenzi meditati per poi riprendere la propria via più ricco di un sentire che si é fatto più profondo. Non ancora ventenne nasce la sua cifra peculiare, la sua pennellata grumosa di materia che delinea e scolpisce forme e movimento. Sono “Fiori autunnali”( 1965) che, raccolti in un vaso fluttuante nello spazio indistinto, segnano il principio del suo cammino artistico. Gli anni successivi si dedica al paesaggio in cui è spesso il cielo che fa da protagonista raccogliendo un chiarore pastellato di segni che sembra voler ripercorrere da capo la strada che fu degli impressionisti; ma c’è il contrappunto nitido e scuro della terra che compensa l’apertura frenetica della pennellata, che descrive la mutevolezza del cielo e, nel contempo, assicura la presenza dei muri delle case e del verde della natura (“Paesaggio di collina” 1966). Man mano si fa più sicuro l’animo e il tratto e così la tavolozza si schiarisce fin quasi a caramellare i contorni di un paesaggio acceso di rosa, verdi e azzurri (“Borgo Appennino bolognese I” 1968). E’ anche l’epoca delle pennellate che sembrano ali di libellula sovrapposte, disordinate, a marcare la vittoria del cielo sulla terra (“Paesaggio di pianura”1968). I primi anni ’70 vedono un’ispirazione vangoghiana: lo sfogo dei colori e l’alzarsi della materia quasi a cercare una dimensione tattile che testimoni fisicamente una nuova energia “(“Paesaggio autunnale”1972). L’apice della solarità, che divide equamente la luce tra cielo e terra, giunge con “Estate”(1976) in cui si riescono a percepire distintamente il caldo afoso della bassa pianura padana e il riflettersi accecante del sole. Più di rado l’artista si dedica alla figura come in “Emma con mazzo di fiori” (part. 1978) in cui dissolve il chiarore dei suoi cieli per creare uno sfondo diffuso e solare che sembra emanare dalla figura stessa materializzandone l’aura. Nel 1984 compare un cielo azzurrissimo, oltremare, che sembra volersi fondere con l’acqua del porto dell’isola d’Elba (“Porto azzurro”1984). Si fa strada il vento che dirige nuvole e acqua di identico colore in direzioni opposte a lambire gli estremi del quadro. La scena è dominata dagli scafi delle barche che si alzano tra le onde godendo, nella loro atmosfera azzurrata, del contrappunto con i tetti rossi delle case. Il mare attrae l’artista che vuole sondare ancora quale sia il vero confine con il cielo (“Venezia S.Giorgio e gondole” 1984) e ferma la sua attenzione sul dondolare del le cupe imbarcazioni lagunari. Non per questo dimentica la sua amata città a cui si è sempre dedicato instancabilmente: scruta le vie, le porte e i mercati inventando a volte scorci inesistenti, una licenza poetica per spiare meglio il suo soggetto (“Piazza Nettuno” 1994). Si alternano “Piazza Ravegnana”( 1987), “Porta Saragozza”( 1988) interrotte da altre marine dell’isola d’Elba o scorci di paesi come”Marciana Alta”(1989) in cui, nell’aria tersa, nell’assenza, si percepisce la presenza umana nascosta a cercare il fresco nelle case, con le porte socchiuse perché non c’è nulla di cui temere. La strada scende ad incontrarci e invita a percorrere la discesa che si offre lastricata dalle pietre calde e ordinate, per cercare quell’angolo di mare che da qui si può solo intravvedere. Nel 1992 “Piazza Maggiore” si anima di gente; l’artista, sollevando la tenda del suo sipario, ci lascia osservare un momento di pausa di una coppia che si è incontrata sotto il Palazzo del Podestà per prendere un caffè. Il pittore descrive le sedie di plastica bianca che convivono con gli antichi palazzi, le stringe tra loro quasi a formare un fiore, avvicinando gli inconsapevoli protagonisti della scena e regalando a chi guarda un attimo di intima quotidianità. Non gli sfugge nemmeno il canuto signore che legge indifferente il giornale, mentre la gente si muove in tutte le direzioni, ognuno incontro alla propria giornata. E così gli spettatori, con gli occhi rivolti alla piazza, seduti al loro tavolino, non sanno che c’è qualcuno che da dietro li osserva. Tirata la tenda su piazza Maggiore, Carpanelli apre la finestra del suo balcone per guardare, incorniciata dai gerani, la sua “San Luca con la natura morta”(1989-1993). Tornano i fiori (“Vaso di fiori di gigli” 1993, “Vaso di fiori con rose” 1994, “Vaso di fiori con gatto”1995), con cui Carpanelli ha iniziato a dipingere, ma questa volta sono ben piantati, fermi, trionfanti. I gigli arancioni svettano su di un balcone per raccogliere le iridescenze dell’aria mattutina. Si intravvede solo una piccola parte del palazzo antistante che definisce la quinta per dare ancor più spazio al mazzo sul suo palco. Vitalissime e sanguigne le “Rose rosse” del 1994 tra i drappeggi della tovaglia e uno sfondo che pare riluccicare in una notte di fuochi d’artificio. Il balcone si trasforma poi in luogo intimo, adatto per un ritratto minimalista: un gatto è rimasto attonito davanti a petali di un rosa cangiante, ritto accanto ad un vaso di fiori rigogliosi, allegri ma senza pretese. Il sipario si fa verde di foglie che corrono lungo il muro per proteggere al meglio la magia di un momento bloccato ma che si teme fuggevole: il gatto è immobile ma trattiene la forza che gli permette di compiere un balzo imprevedibile. “Emma dopo colazione”(1995) è una danza di colori fauve. Carpanelli non ha paura di comporre pennellate violente e mutevolissime ma ci si chiede come la giovane donna ritratta non si svegli frastornata da una luce abbagliante che rimanda, impazzita tra gli oggetti, fasci di colori accecanti anche sul suo viso. Di nuovo sapori di casa con i “Binari a Zola Predosa”(1995), un luogo estremamente familiare all’ingegnere come al pittore che coniuga i suoi due poli in una visione serena e partecipata. Cambia registro ancora l’artista con “Natura morta con iris”(1995) in cui la composizione si fa di nuovo teatrale trasfigurando un interno quotidiano con un dripping di colori artificiali, che quasi nega il suo umile soggetto. Un’altra immagine trasfigurata nel sogno è “San Luca I” del 1995 in cui gli alberi muovono i loro rami in una danza che sì protende verso la basilica, mentre il cielo a cascata sembra stia per piovere a terra per sempre. “Venezia dal ponte dell’Accademia”(1995) si presenta nella sua veste più regale, scelta in uno scorcio aperto che si immagina proseguire all’infinito, cullata dai riflessi rosa del cielo pomeridiano. Cieli da Sturm und Drang per i quattro piccoli quadri di Bologna: le architetture lasciano sfrecciare tra le loro guglie, le loro torri, i portici, nuvole minacciose che corrono vorticosamente (“San Luca Il”) o raggi quasi apocalittici che sembrano decisi a puntare una direzione precisa dietro a noi (“Piazza Maggiore III “1996). Uno dei numerosi viaggi dell’artista ha ispirato il quadro “New York:Manhattan” (1996) in cui lo studio del cromatismo e della forma si esalta nella verticalità accentuatissima degli edifici. Parlai già di questa tela in occasione della mostra al Circolo artistico di Bologna in cui la segnalai come una delle migliori prove, ed ancora oggi mi stupisce per l’orchestrazione degli spazi, delle forme e dei colori. Il pennello si adatta, allungandosi nel tratto, alle altezze vertiginose dei grattacieli, ai riflessi dell’acqua della fontana metropolitana come a comporre il movimento di mezzi e persone. Ma è il confronto con “Rochester: Main street” (1997) dello stesso anno che completa l’ “Album americano” dell’artista. Dalle verticali spezzate dall’inquadratura di Manhattan, Carpanelli si sposta a volo radente per osservare il traffico cittadino di un altro pezzo d’anima d’oltre oceano. Non rinuncia al colore: l’asfalto del ponte è percorso da strisce luminose che sembrano correre più veloci delle auto. Le ultime prove sono il frutto di un momento di grande entusiasmo, di desiderio di sperimentare ancora le possibilità insite nel colore. Il “Vaso di rose con frutta” (1997) si tinge di barocco attraendo a sé coriandoli di un cromatismo divisionista acceso e spiazzante, mentre le pieghe rigonfie di una tela paiono alzarsi per guadagnarsi un posto in primo piano. Superbe, le rose non temono nemmeno di dividere il loro spazio con una fruttiera che cita le nature morte degli anni passati e che forse Carpanelli ha dipinto proprio lì, a fianco del mazzo, per sottolineare che il suo cammino procede senza dimenticare, né temere il confronto con il passato. Carpanelli tratta il fiume di Vizzano (“Sasso Marconi: Dal Ponte di Vizzano” 1997) come lo sfondo delle rose, dissociando i singoli tratti di colore come per cogliere ogni singolo bagliore nella profondità dell’acqua di fronte a lui. E i rami quasi bruciati, consunti dalla stagione, si fanno sipario per allontanare, come in un intervallo brechtiano, la mente dello spettatore dal coinvolgimento ipnotico della scena. Last but not least, il “Porto di Cesenatico” (1997) con le sue barche bloccate a fior d’acqua, ritmate dai loro alberi senza vela sullo sfondo di case e cielo, delineate con una precisione da far pensare alla camera ottica di Canaletto. Mantiene fede Carpanelli ai suoi progetti e al suo entusiasmo, c’è dunque da aspettarsi presto nuove prove e nuovi esperimenti. Attendiamo solo di vedere dove lo porterà la sua strada.
Gioia Gardo
2012-07-19